L'azione dell'amore quanto sia nobile, giovevole e all'uomo convenevole, non abbiamo necessità
di dichiarare, perchè è da sè manifesto per le scritture che l'amor di Dio prevale ad ogni virtù, è
fine di ogni precetto ed è sostegno di tutta la legge.
Questo nasce dalla meditazione, la quale dimostrandoci quanto Iddio sia e in sè e verso di noi
buono, e quanto l'amor suo verso di noi sia ardente ed efficace, provoca il cuore umano,
naturalmente inchinato ad amare il bene e chi l'ama e gli fa bene, a questo nobile atto d'amore.
È vero, come dicemmo di sopra, che l'amore è passione ed è atto. Quando è passione, è una certa
inclinazione e desiderio che abbiamo di unirci a quel che amiamo, dalla quale verso di lui ci
sentiamo portati. E se ella è ardente, non ci pare di poter star bene se non essendo a quello uniti;
perchè l'unione del cuore, che già è fatta per tale amore, brama che tutto il resto segua e di
tutt'insieme si faccia una perfetta e totale unione.
E questo mirabilmente avviene amando noi Iddio; che quando questo peso dell'amore ci porta
verso Iddio, il quale è il vero centro d'ogni ragionevole creatura, non permette che cosa alcuna
rimanga addietro, ma vuole con tutto ciò che abbiamo da entrare e penetrare in Dio, perchè non
trova riposo altrove.
Anzi perchè il cuore istesso non può così pienamente, come brama, entrare in Dio e tutto
trasformarsi, acciò sia l'unione maggiore, arde di più cocente fuoco di maggiormente unirsi. E
quanto più s'accosta, tanto più velocemente e con ardore si muove a questo suo spirituale centro;
e perchè è lo spazio infinito, talchè mai all'ultimo termine s'arriva, l'amore non è mai sazio, nè
questa inclinazione cessa mai di spingersi avanti, e d'accendere ognora in noi fiamme di
desiderio.
Quando poi l'amore è atto, è un voler bene alla cosa amata, o desiderandole quel che non ha o
compiacendosi di quel che ha.
E però quando è verso Iddio, il quale in sè non solo ha, ma è ogni bene, egli è un compiacimento
che abbiamo di tutte le sue perfezioni e grandezze. È vero che l'onore, l'obbedienza e la servitù,
che gli deve la creatura, sono da noi considerati come beni di Dio, i quali talora non gli si danno
come si converrebbe. Però l'amore che abbiamo a Dio fa che desideriamo che gli si diano cotali
beni. E questo desiderio s'indirizza non solo verso gli altri, ma ancora verso di noi; perchè
vedendoci noi mancare nell'onorare, ubbidire e servire alla Maestà divina, l'amore, desideroso
che Iddio sia altamente onorato, umilmente ubbidito e generalmente servito, accende noi stessi a
farlo quanto possiamo.
E perchè vanno talmente insieme l'atto e la passione dell'amore, che non solo non si possono
separare, ma appena si sanno distinguere, di qui è che nell'esercizio dell'amore, il quale pregando
si fa, ci sentiamo ora mossi verso Iddio per unirci con lui perfettamente, ora accesi verso di noi
per desiderio di onorarlo, ubbidirlo e servirlo.
Quindi sono quei due atti chiamati dai contemplativi Intratto ed Estratto.
Intratto è il tendere del cuor nostro in Dio, che è quando la passione dell' amore ci porta in Dio,
per diventare con lui uno stesso spirito.
Estratto è il tendere del cuor nostro fuori di Dio, che è quando l'atto dell'amore, volendo che tutti
onorino e ubbidiscano Iddio, cade sopra di noi e acutissimamente ci sprona a tutte le virtù, per le
quali è onorato Iddio e osservata la sua legge.
Nell'Intratto, quantunque la passione, cioè l'inclinazione e sete di unirci a Dio, sia più manifesta,
v'e nondimeno l'atto amoroso di compiacersi del bene di Dio, benchè questo sia per lo più
implicitamente.
Nell'Estratto, quantunque la principale e più evidente parte sia l'atto amoroso, il quale desidera a
Dio questo bene dell'onore e dell'ubbidienza della creatura, non è però in tutto privo
dell'inclinazione a Dio per unirsi a lui; perchè allora veramente si onora e si ubbidisce a Dio,
quando ci uniamo a lui. E di qui viene che questi atti d'Intratto e Estratto sifanno a vicenda nel
contemplare e uno succede all'altro, perchè e l'uno genera l'altro; nè può la mente pienamente
farli ambedue insieme, perchè quando l'uno genera l'altro, è forza che il generante ceda al
genenato.
Nell'Intratto l'anima portata verso Iddio si sforza di mirar lui solo e riguardarlo fisso, parlandogli
senza parole. E chi più altamente ascende con questo atto parla meno, ma con un quietissimo
silenzio sta mirando il suo Iddio e incontrando i suoi occhi con quelli di Dio; cosa d'ineffabile
diletto.
Chi ancora non è molto esercitato ed elevato in questo, è forza che s'intrattenga con
ragionamenti dicendo a Dio: - Tu sei il mio Creatore e Redentore, Tu sei la mia Beatitudine, Tu,
in te stesso, sei di bontà infinita. - E così vada discorrendo per l'eccellenza e per l'operazioni
divine; perchè altrimenti per non esser chiara la vista con che si mira in Dio, nè efficace, ma
debole ed oscura, si va sostenendo la mente con tali discorsi e ragionamenti, fatti però a Dio in
seconda persona.
Ma perchè tanto quelli quanto questi, poco possono durare in tal riguardo, è forza lasciar la
contemplazione, ricadere in se stessi ed uscir all'esercizio dell'Estratto, eccitandosi agli atti
virtuosi e alla perfetta osservanza del volere Divino; acciò l'anima in questo esercizio
dell'Estratto, ripigliate le forze, s'indirizzi di nuovo all'unione con Dio, entrando in lui e lui solo
mirando. Non vi sarà dubbio presso alcuno che l'Intratto non sia più nobile che l'Estratto, poichè
invero egli è quello che beatifica i santi in paradiso e fa in terra felice l'anima devota.
Onde a quello deve l'anima principalmente aspirare e, in quello che può, esercitarsi; non già
presuntuosamente ponendosi alla Divina presenza, ma rendendosi facile e pronta a seguire il
timore di Dio; non mancandoquanto sia per sè di elevare la mente in Dio, astraendola da ogni
memoria e riguardo di creatura.
L'Estratto nei perfetti non discende molto al particolare delle virtù, ma solo in generale brama
compiutamente far la volontà di Dio, per lo che a sè stesso dà spronate molto acute, ma poi più
speditamente scivola nel seno di Dio e ivi più lungamente dimora.
Gl'imperfetti, che ancora dalle viziose passioni si sentono aggravati, hanno bisogno di
approfondire meglio quest'atto, des-iderando, proponendo e domandando aiuto a Dio di fare
questo o quell'atto di virtù, come contrari alle proprie passioni.
Nondimeno quando qualcuno da Dio si sente chiamato all'altezza dell'Intratto, segua la voce e il
tirare di Dio, perchè ivi riceverà gran forza di fare quel che ha bisogno di fare, onde superare sè
stesso. E sentirà per prova che l'Estratto dopo l'lntratto è di maggior efficacia.
E nell'Estratto tutti comunemente finiscono l'orazione, chiedendo a Dio grazia di ben servirlo e
fare sempre il suo volere.
CAP. XXI.
Dell'ultima operazione, che è la preghiera.
L'ultima operazione è l'orazione, e questa è quella nella quale si risolvono tutti i precedenti atti,
così meditatativi come affettivi; onde da essa tutto l'esercizio prese nome di orazione; perchè
quantunque vi siano degli atti più nobili di lei, ella nondimeno è la più generale, e tutti gli altri
regolarmente in lei si risolvono e finiscono.
Onde il celeste Maestro, insegnando ai suoi discepoli a pregare, non fece menzione se non di
questo atto del pregare, e se ben pose innanzi alla preghiera quelle poche parole: «Padre nostro,
che sei ne' Cieli», le quali posson servire a meditare, nondimeno, come si vede, le pose perchè
sapessimo a chi indirizzare la nostra orazione.
Ma non per questo esclude gli altri atti, dei quali noi finora abbiamo ragionato, anzi li
presuppone; perchè non si domanda una cosa se prima non se n'ha desiderio; nè si prega che ci
sia levato qualche male, se prima non s'ha in odio o non si teme.
E a queste affezioni precede sempre la cognizione e il pensiero. Adunque al pregare e alla
meditazione, che dà il lume, precedano gli affetti, che danno o sono il caldo, onde l'anima
s'accende ad orare.
Volendo adunque Cristo che preghiamo: «Sia santificato il nome tuo» presuppone che
conosciamo la Maestà di Dio com'ella è in se medesima di grandezza infinita, per la qual merita
di esser onorata da tutte le creature, e come ella si porta verso di noi, nel farci sempre bene per
mera grazia, onde noi siamo tenuti sempre a ringraziarla.
Volendo che preghiamo: «Venga il Regno tuo », presuppone che conosciamo la stessa Maestà di
Dio quanto al dominio che ha sopra tutto il mondo, e come è giovevole a noi starle soggetti:
onde è perché a lei conviene e a noi giova, ch'ella ci regga, nel desiderio e nel far orazione.
Volendo che preghiamo: «Sia fatta la volontà tua in terra, come si fa in Cielo», presuppone che
conosciamo l'obbligo, l'utile, la necessità che abbiamo di ubbidire al volere divino. Volendo che
preghiamo: « Dacci oggi il nostro pane quotidiano», presuppone che conosciamo come e quanto
siamo bisognosi di sussidio spirituale e corporale, e quanto siano amabili e desiderabili i doni
suoi.
Volendo che preghiamo: « Rimettici i debiti nostri», presuppone che ci conosciamo debitori ed
impotenti a pagare, essendo pur necessario per noi, che la partita si chiuda.
Volendo che preghiamo: «Non ci indurre in tentazione», presuppone che conosciamo quanto
siamo facili a cadere nel peccato, si per l'astuzia e forza dei nostri nemici, sì per debolezza ed
insipienza nostra.
Volendo che preghiamo: «Liberaci dal male», presuppone che conosciamo ed abbiamo in odio il
male. Cristo adunque, insegnandoci a fare queste domande, presuppone che abbiamo il
conoscimento ed il desiderio, che deve andargli innanzi.
E se non l'abbiamo, c'insegna a procurarlo, perché chi domanda il fine, senza dire altro, domanda
ancora il mezzo necessario per aver quel fine.
Circa dunque quest'operazione del pregare si hanno da sapere più cose: la prima è il motivo che
ci spinge a pregare, e questo nasce da molte cause.
Nasce da Dio, il qual merita che da noi sia pregato, e col pregar onorato; il quale vuole che lo
preghiamo, perché ha ordinato l'orazione come mezzo della nostra salute. Onde ci comanda che
facciamo orazione; ci assicura di esser esauditi; ci manda dei travagli, per farci gridare a lui;
c'infonde gran diletto all'atto del pregare; ci ha dato esempio di questa virtù nel suo figliuolo e
nei suoi santi; ha istituito gli Angeli come mezzi e messi ch'offeriscono a sua Maestà le nostre
petizioni. Nasce questo motivo ancora dalla cosa per la quale preghiamo, la quale o è tal bene
che merita di esser desiderato da noi, e per averlo si rende necessaria l'orazione: ovvero è male,
o presente o imminente, il qual bisogna rimovere da noi; nè si può senza l'orazione; onde si
prega, e contro il male e contro i mezzi per i quali viene il male, come sono le tentazioni.
Nasce parimenti da noi, aiquali è proprio, è utile, è debito, è necessità il pregare.
Proprio, perchè l'orazione è un esercizio umano, da cristiano.
Utile, perchè con questo provvediamo a tutte le necessità nostre.
Debito, perchè Iddio vuole che lo facciamo ed è debito della creatura umiliarsi al Creatore e
onorarlo, come si fa pregando.
Necessità, perchè senza l'orazione non possiamo soddisfare al debito nostro, non possiamo
conseguire il nostro fine, non possiamo levarci d'addosso il male. Fra questi il motivo che nasce
da Dio è il più alto, ed il più perfetto; e volendo, tu puoi ridurre questi altri a quello, perchè il
volere di Dio si estende a tutti gli altri motivi; cioè Iddio vuole che otteniamo il bene, siamo
liberi dal male col mezzo dell'orazione, e perciò siamo nella necessità di pregare, perchè Iddio
vuole che tu usi questo mezzo.
La seconda cosa che si ha da sapere è la persona a chi si ha da indirizzare l'orazione: e questa
ce l'insegnò il nostro Salvatore, volendo che dicessimo: «Padre nostro, che sei ne' cieli»; e per
Padre s'intende Iddio, trino in persona ed uno in sostanza, perchè da lui solo vien principalmente
ogni dono.
Possiamo nondimeno pregare ancora i Santi in due modi. Prima supplicandoli che preghino per
noi e presentino le nostre orazioni a Dio, come facciamo nelle litanie. Secondo, pregandoli che
ci aiutino secondo la virtù e grazia che Iddio concede loro; poichè se preghiamo un uomo in
terra, onde ci soccorra, quanto maggiormente possiamo pregare i Santi i quali sono e potenti e
pietosi; nè s'esclude per questo la mano Dio; perchè quantunque non si dicesse altro, si
presuppone che ci debbano aiutare come possono e come conviene, e non lo possono senza Dio.
E qui lodo che tu abbi in divozione qualche Santo, all'intercessione ed aiuto del quale spesso tu
ricorra.
La terza osservazione è intorno a che cosa si ha da domandare. Questo l'abbiamo espressamente
nell'orazione domenicale. E se seguirai le Pratiche esse t'insegneranno. Solo di questo per ora ti
avverto, che le cose - le quali possono essere buone o cattive, cioè giovare o esser occasione di
danno, come sono i beni temporali ed anche il gusto nell'orazione, e simili altri doni spirituali -
non si devono domandare assolutamente, ma solo con questa condizione espressa o tacita, se
così piace a Dio: nondimeno si può pregare perchè gli piaccia, e faccia che sia per il meglio.
Ciò che ti spinga a domandare con fiducia non hanno da essere i tuoi meriti, ma la misericordia
di Dio, la sua bontà, la sua provvidenziale passione, il sangue, la morte, i meriti di Cristo, di
Maria Vergine e degli altri Santi. E potrai servirti di quel mistero che avrai meditato allora.
L'orazione all'ultimo dev'esser fatta con grande ardore e forzagridando forte nel secreto del
cuore.
Ricapitolando: sino ad ora abbiamo veduto le tre parti delle pratiche nostre; Il Preambolo, che
tocca alla preparazione; la Meditazione, che amministra la legna onde accendere il fuoco della
bontà, e l'Azione, la quale contiene gli affetti e l'operazione. Ed abbiamo dato il modo di far
queste operazioni. Resta ora a dare alcuni avvertimenti intorno al servirsi delle pratiche.
CAP. XXII.
Degli avvertimenti onde usare bene le Pratiche.
Questo ultimo capitolo dunque contiene gli avvertimenti onde usare bene le pratiche. Il primo
dei quali è questo: quando vuoi pregare, piglia questo libretto in mano e leggi una di queste
pratiche, e s'hai tempo e buona memoria imparala alla lettera; e poi mettiti ad esercitarla,
facendo gli atti ordinatamente, come sono posti in essa: se anche non hai tempo o memoria, o
voglia d'impararla a mente, tieni il libretto in mano e va leggendo, e tuttavia facendo gli atti
come li trovi ivi scritti; ma però di questo modo, che tu legga un atto o due e poi, senza guardar
sul libro, ti sforzi di farli col cuore, con quella maggiore attenzione e forza che puoi.
E perciò è bene che prima tu legga tutta la pratica per intenderla bene, acciocchè quando devi
eccitar l'affetto non abbia a speculare per intendere; perchè questo molto raffredda il cuore. E
questo s'intende per la prima volta, chè usandola poi altre volte non è così necessario leggerla
prima.
Ti esorto poi, che quando avrai nell'orazione esercitato una pratica, l'altra volta che ritorni
all'orazione ripigli quella stessa; perchè la prima volta l'occupazione dell'intelletto per intenderla
o ricordarsela, o pur anche il guardare e leggere nel libro, molto impedisce la divozione, e che la
seconda volta ne sentirai più gusto: e, parendoti, potrai seguire una, o due, o tre volte, sinchè vi
trovi pascolo, prima che passi all'esercizio di un'altra pratica.
Il secondo avvertimento sia che se in qualche passo le pratiche ti paressero difficili da intendere,
non ti devi nè meravigliare, nè sgomentare; perchè io sono stato costretto dalla necessità,
essendo che l'intenzione di questo libro non è di dichiarare teologia, ma solo di proporre materia
d'orazione in forma di pratica; ed ho avuto necessità d'essere breve, per dar campo all'intelletto
onde stendersi con la meditazione; per non fastidire chi legge e perchè più facilmente si
potessero mandare alla memoria queste pratiche. E non dubito che quando ti sarai esercitato con
quelle, non sii molto contento del breve e succinto loro dire, che se al principio tu non l'intendi
in qualche luogo, potrai fartele dichiarare da qualche dotto.
Ed esercitandole, verrai pian piano ad intender chiaro quel che ora ti pare oscuro; che se pur in
maniera alcuna non l'intendi, lascia da parte quelle che non intendi ed esercitati in quelle che
sono facili e chiare.
Il terzo avvertimento consiste nel ponderare bene gli atti, nè passar via correndo, perchè qui
solamente si toccano i punti; a te si aspetta poi di spremerne fuori il succo.
In quarto luogo nota che si son posti al fine gli atti affettivi, per distinguere la pratica nelle sue
parti; nondimeno se dopo un atto meditativo ti sentissi accendere l'affetto, non occorre aspettare
che si finisca la meditazione per fare gli atti affettivi. Anzi di più, quantunque io abbia posto
quell'ordine che mi è parso migliore, nondimeno se nel pregare tu sentissi che lo spirito ti guidi a
cavarne altri, ovvero da un mistero ti conduca in un altro, ovvero ti soffermi tanto in quello dove
ti trovi, che non occorra passare più innanzi per far gli altri atti descritti nella pratica, segui
sempre il tratto dello Spirito Santo.
Sii però avvertito di non lasciarti tirare fuori del tuo ordine e pratica per ogni piccola cosa, per
evitare l'inganno del demonio; il quale potrebbe, sotto pretesto di qualche nuovo lume o
divozione, farti andare vagando; e tolto che ti abbia fuori dell'ordine del tuo esercizio, lasciarti in
secco, nè lasciarti più ritornar là onde sei uscito; onde in tale modo avresti perduto la vera
sostanza, seguendo l'ombra.
Considera in quinto luogo come, perchè la meditazione non si fa per altro che per accendere
l'affetto, quando tu lo senta ben acceso, devi lasciare gli altri atti meditativi posti nella pratica ed
entrare negli atti affettivi della volontà; perchè giunto che sii a casa ed al fine per il quale
prendesti la via, non devi curarti più di altra via. E fa che nell'esercizio affettuoso tu virilmente ti
affatichi, eccitandoti gagliardamente quanto tu puoi.
E quando per il lungo esercizio fossi venuto a tale, che senza previa meditazione tu ti sentissi
abile a volar in Dio con l'affetto, allora non hai bisogno di queste pratiche; perchè non fa
mestieri di scala a chi può volare; e tieni per fermo che la vera contemplazione sta più
nell'affetto che nell'intelletto.
Sesto avvertimento sia che gli affetti son quasi sempre gli stessi, e così le operazioni
conseguenti. Io sono stato breve nel descrivere nelle pratiche questi atti affettivi, acciò io non
avessi a replicar quasi sempre la stessa cosa. Tu nondimeno stenditi a quelli e falli con gran
forza.
Parimenti i preamboli sono, in sostanza, quasi sempre gli stessi, ancora che vari in parole, perchè
la preparazione sempre la stessa. Ho nondimeno a tutte le pratiche fatto il suo preambolo, perchè
tu li leggessi e te ne servissi sempre.
Il variare delle parole che ho fatto, è stato acciò io non ti fastidissi. Quello ch'essi contengono è
diffusamente spiegato nella prima pratica; la quale perciò ho intitolata della preparazione,
perchè propriamente ella contiene l'ordinaria prepararazione che si ha da fare e che nei
preamboli è insegnata.
Ma nelle meditazioni si ha più diversità, però quelle sono più estese che le altre parti estreme
delle pratiche.
Terminate adunque le precedenti considerazioni, nelle quali si è studiato il fine per cui si tratti
dell'orazione nei santi libri e si sono vedute alcune cose generali per maggior intelligenza delle
pratiche seguenti e per saperle usare vengo ora a porre quella che è la seconda parte, che io ho
promesso da principio; supplicandoti anima devota, la quale di questi esercizii ti servirai, che
quando sarai accesa nell'orazione e parlerai con Dio, ti degni ricordarti di me ancora e
raccomandarmi alla benignità sua.